Dazi, un braccio di ferro tra politica ed economia
- Silvia Malandrin
- 28 lug
- Tempo di lettura: 3 min
L'Editoriale del Direttore

E alla fine accordo fu. Dazi al 15% per i prodotti importati dai Paesi dell’Unione Europea verso gli Stati Uniti (con numerose deroghe e un’intesa ancora da trovare sui farmaci per esempio). Tra minacce reciproche, insoddisfazioni da parte di alcuni Stati dell’Ue come la Francia e del centrosinistra in Italia.
Tuttavia la stretta di mano in Scozia tra il presidente degli Usa Donald Trump e la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen lascia l’amaro in bocca. Soprattutto mette in risalto l’eterno scontro tra politica ed economia, consumatori e libero mercato, produttori di eccellenze made in Italy e multinazionali più attente ai profitti che alla qualità.
In un mondo davvero globalizzato i dazi non dovrebbero più esistere. La “guerra” inutile sulle importazioni ed esportazioni non la decide solo la politica, ma soprattutto il libero mercato. Gli Stati avrebbero piuttosto il compito di controllare il rispetto della genuinità dei prodotti e della concorrenza condotta senza trucchi e senza inganni nei confronti dei consumatori. A che servono allora gli accordi commerciali tra le Nazioni? Non si può convivere con la minaccia di aumentare a dismisura la tassazione o di tagliare posti di lavoro.
Ancora una volta la “piccola” Ue ha dimostrato la sua impotenza. Lo spauracchio dei controdazi non ha affatto intimorito il tycoon americano, che nella sua tenuta in Scozia ha incontrato Ursula von der Leyen e l’ha costretta a scendere a patti. Che fine ha fatto la tassazione sul digitale? Perché invece di un obbligo di acquisto sulle armi Usa non si è discusso di disarmo e incentivi alla riconversione dell’industria bellica? O addirittura del sostegno dei prodotti agroalimentari tipici e del vino di qualità?
L’accordo scozzese non sembra stabile ed è suscettibile dei capricci di ambedue le parti. Al termine del mandato presidenziale potrebbe succedere un presidente americano più attento alla salute dei propri concittadini e alla qualità delle importazioni. Oppure un Trump più agguerrito che rimette in discussione il tutto. Mentre la fragile maggioranza che sostiene la presidente della Commissione Ue potrebbe sfaldarsi e imporre i controdazi.
Quest’altalena sulle imposte doganali ha comunque messo in evidenza anche la fragilità delle imprese italiane. Secondo Confartigianato sono poco più di 25mila le aziende nostrane che nel triennio 2022-2024 hanno esportato verso gli Usa. Con un valore complessivo che l’anno scorso ha raggiunto i 56,4 miliardi di dollari. Tra i comparti più a rischio restano moda e meccanica. Per il Centro Studi di Confindustria la stima è al ribasso: 22,6 miliardi di dollari di minori esportazioni. La realtà è che le nostre aziende sono troppo assistite, senza un progetto di medio-lungo periodo, con un dollaro debole che ne aveva già minato gli introiti. Invece servirebbe un piano serio di diversificazione dei mercati. Perché non sfruttare la presenza dei milioni di italiani – figli e oriundi – sparsi in tutto il mondo? Basti pensare all’America latina e alle potenzialità che offrirebbero per esempio Argentina, Brasile e Venezuela. Oppure l’Africa con tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. O ai Paesi arabi innamorati del made in Italy (non solo quello di lusso). L’Estremo Oriente con la Cina – perché abbandonare l’accordo “Via della seta”? - e il Giappone. E l’Australia. Il problema è che i nostri produttori di eccellenze italiane dovrebbero affidarsi a export manager qualificati. Dovrebbero creare una rete per ridurre i costi, accorciare la filiera e partecipare a rassegne e fiere in tutti quei Paesi in cui l’eccellenza italiana è apprezzata. O educare i consumatori stranieri a farlo. Servono però investimenti e mentalità capaci di costruire mercati globali privi di dazi e con consumatori da rispettare.
Maurizio Carucci
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